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Maternità che rovescia sacralità: la voce di Aurora Piaggesi


Vive con la scrittura tra le mani, partorendo storie e maneggiandole con maestria. Lei è Aurora Piaggesi, storyteller e regista, da pochissimo anche autrice. Il suo romanzo d’esordio, “Nel corpo di me” esce il 17 ottobre con Ignazio Pappalardo Editorel’originalissima trama, come racconta lei stessa, non è del tutto originale. Sì, perché la

Piaggesi rovescia un tema come il sacro della natività cristiana inserendolo in un contesto

queer. La protagonista, Silvia, è una donna lesbica che resta miracolosamente incinta. Mentre fa i conti con l’avvenimento misterioso, tutti attorno a lei sembrano voler dire la propria su questa gravidanza “fuori dagli schemi”. Una storia che parla di maternità, di ricerca di se

stessi, di sacralità. Una storia che, dopotutto, parla d’amore.


Da una presentazione un po’ particolare del tuo romanzo, lo descrivi ironicamente come

una storia già raccontata, ma in modo un po’ diverso. Fai riferimento alla religione

cristiana e al tema della natività, ma in un’ottica queer. Come nasce questa idea, qual è la genesi?

Nonostante il tema del romanzo possa suonare controverso, io ci scherzo spesso sopra perché

non sono una persona che si vuole prendere troppo sul serio, anche se purtroppo non sempre

mi riesce. La realtà è che anche l’origine di questa storia rispecchia questo paradosso. Nel

2016, nel pieno del furore dei dibattiti sulle unioni civili, uno degli argomenti che i contrari

a questa legge usavano per portare acqua al mulino della loro causa era la questione della

genitorialità; come se legalizzare l’esistenza della coppia omosessuale immediatamente

avrebbe aperto le porte di chissà quale orrore familiare, permettendo a tali coppie di adottare

dei bambini. (Purtroppo, questa convinzione radicata in tutta una fascia di popolazione che

due persone dello stesso genere non siano dei buoni genitori esiste ancora, nonostante le

migliaia di casi che dimostrano il contrario e ad oggi questo diritto è ancora precluso.)

Io nel 2016 stavo frequentando da poco quella che anni dopo sarebbe diventata mia moglie e,

non so perché, un giorno le dissi: “Sono talmente ingenua che se tu mi dicessi che sei rimasta incinta per miracolo, ci crederei”. Ci tengo a far sapere qui che non sono cristiana; quindi, immagina quanto suoni cretina questa dichiarazione.

Ma, in qualche modo, questi due temi mi sono rimasti in testa. Come reagirebbe il mondo,

questo mondo così intollerante, a una lesbica che rimane incinta “per magia”? Da questa

domanda ho scritto un soggetto per una sceneggiatura, che nel 2017 vinse il Premio Borsa di Formazione Mattador, ma la cui sceneggiatura non divenne mai un film. E nel 2019, rispondendo a un bisogno condiviso di “scavare più a fondo” in questa vicenda, scrissi la prima bozza di questo romanzo, dal titolo In Umana Concezione.


La trama rovescia senza alcun dubbio gli equilibri, si muove nell’ottica del sacro e lo

contesta, soprattutto. Qual è l’obiettivo della tua scrittura?

Pur non essendo una persona religiosa, rispetto profondamente la spiritualità altrui, anzi a

volte invidio il senso di amore, pace e scopo che la fede può portare nei cuori delle persone.Di conseguenza, non mi descriverei mai come una persona né come un’autrice il cui obiettivo

è il “dissacrante”, perché penso che mi manterrebbe su un piano di cinismo che non fa bene a nessuno, non in una società già abbrutita come la nostra. Secondo me le storie, anche quando contengono delle critiche o descrivono situazioni dolorose, hanno il potere di – oltre

l’intrattenimento – ispirare delle reazioni in chi le fruisce. Noi narratori non possiamo sapere

al 100% come reagirà ognuno dei nostri lettori, ma certamente possiamo concepire le storie

per favorire delle reazioni piuttosto che altre. Per quanta rabbia e dolore possa provocare un

mio scritto, la mia speranza è di stimolare una riflessione propositiva in chi mi legge e,

magari, anche delle azioni positive, di prendere consapevolezza di ciò che vogliamo

migliorare in noi e fuori di noi.


Silvia è una donna che si scopre incinta senza essere mai stata con un uomo. Da qui, dai

vita a una serie di eventi che accadono nella vita di questa protagonista e che la mettono di

fronte a una nuova ricerca di sé. Come descriveresti il viaggio che compie Silvia?

Di certi personaggi si dice che compiono un viaggio esteriore e uno interiore. I viaggi di

Silvia sono entrambi interni, nella misura in cui, insieme alla bambina nel suo ventre, anche

lei è portata a una sorta di evoluzione psicologica, oltre che fisica. Stiamo parlando di una donna che, non solo non ha cercato questa maternità, ma che ha delle profonde ferite

interiori, che la portano a scacciare chiunque le si avvicini troppo emotivamente. Questa

nuova relazione con la vita che le cresce dentro la porterà progressivamente anche a relazionarsi diversamente con chi le sta a fianco e le vuole bene davvero.


Come affronti il tema della maternità in questo romanzo?

Premettendo ovviamente che non penso sia possibile riassumere con una storia l’esperienza

della maternità queer e soprattutto della maternità in generale, e che, anzi, ogni esperienza sia unica e non paragonabile, nel raccontare questa particolare maternità, sono partita dal cercare di mettermi nei panni di qualcuno che scopre dentro di sé qualcosa che non si aspettava e non desiderava. Nei primi capitoli i personaggi si chiedono se quello che si trova dentro Silvia sia un tumore o qualcosa di pericoloso per lei. Penso che ogni persona, nel

momento in cui diventa genitore, ad un certo punto attui un’inevitabile trasformazione in sé

(se ciò non avviene, povera la loro prole!): mettere al mondo e crescere dei figli richiede

inevitabilmente una qualche forma di sacrificio e non sto parlando solo di tempo o denaro,

ma del fatto che nel diventare genitori – madri soprattutto – a un tratto non siamo più la

persona più importante per noi stessi. La nostra prole, lo diventa. E quindi, inevitabilmente,

una parte di noi, piccola o grande a seconda del caso, viene sacrificata. Da donna childfree,

quindi senza figli per scelta, provo grande ammirazione per le madri, proprio per questo

sacrificio che accettano in nome dell’amore. E, proprio per questo, penso che sia

fondamentale e necessario che l’esperienza della genitorialità possa essere sempre una scelta,

mai un obbligo.


Una delle chiavi di lettura di questa storia è, secondo me, la conseguenza più forte di

questa gravidanza. Ognuno attorno a Silvia, come spesso accade di fronte a un evento

come l’arrivo di un bambino, si sente in diritto di dire la sua. Sicuramente, la questione è rafforzata nella sua situazione. Cos’è, secondo il tuo punto di vista di madre di questo

romanzo, che indigna maggiormente gli altri: il fatto che non sia una donna eterosessuale,

che non sia mai stata con un uomo e che tutto sia nato da un misterioso incidente?

Penso che l’indignazione sia una figliastra dell’ignoranza, una sorta di sorella minore della

paura e dell’intolleranza. Meno capiamo il mondo e più lo sentiamo mutevole, più potremmo essere portati a temere ogni cosa che devia dal “conforme” e di conseguenza a rifiutarlo. In questa storia abbiamo una vox populi che abita un mondo in crisi, sia per la crisi climatica che per le tensioni politiche, che si trova di fronte a un evento incomprensibile, sia a livello di logica che a livello di dogmi, e che a tale evento non sa reagire. Spesso la strafottenza, la spacconaggine e la ricerca di menzogne e intrighi ci danno l’illusione di poter esercitare un controllo che, alla fine, non abbiamo mai.


Quale pensi sia il vero fulcro dell’avvenimento – inspiegabile anche agli occhi stessi della

protagonista – al centro di questo romanzo?

Questa storia racconta di un gruppo di personaggi che, ognuno in modo diverso, deve reagire di fronte a un evento incomprensibile che, a livelli differenti, irrompe nelle loro vite e le scombussola. Io ero interessata ad esplorare cosa può accadere dentro e fuori di noi

quando ci apriamo all’imprevedibile, a ciò che non capiamo e, soprattutto, all’altro, tutte

cose che una maniaca del controllo come me ha problemi a fare. C’è anche un senso più

profondo, legato anche alle implicazioni umane ed emotive che quest’accettazione può

comportare, ed è in questo aspetto, forse, che chi lo cerca troverà il sacro. Ma alla fine, come

in ogni opera testuale, il senso di questo romanzo sarà differente a seconda di chi lo leggerà, ed è una cosa che mi piace immaginare.