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Recensione ~ Non dico addio di Han Kang

Il mio amore per la letteratura sudcoreana nasce con Han Kang, nasce con il suo “Atti umani”, con il racconto di una tragedia sconosciuta. Non dico addio mi riporta alla mente sensazioni simili; si tratta di un altro evento, un’altra tragedia della storia sudcoreana di cui io, così come immagino buona parte dell’Occidente, non sapevo nulla. Una tragedia magistralmente usata dall’autrice per parlare ancora una volta di umanità e di amore come solo lei sa fare.

Gyeong-ha vive in quasi completo isolamento, perseguitata da un incubo che da anni non la lascia più vivere normalmente. L’isolamento che si è imposta viene improvvisamente spezzato quando Inseon, vecchia amica bloccata in ospedale, le chiede di andare a casa sua, sull’isola di Jeju, per sfamare il piccolo pappagallino che altrimenti da solo rischierebbe di morire.

Pur non comprendendo del tutto la richiesta della sua amica, Gyeong-ha parte per Jeju, nonostante sia proprio lì che si nascondono i fantasmi dell’incubo che la perseguita. Il viaggio a Jeju, una tempesta di neve, un percorso tra paesaggi bui e innevati che la conducono alla vecchia casa di Inseon, sono solo espedienti che introducono il vero fulcro del racconto. A Jeju si è consumata una terribile tragedia; tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50 del secolo scorso, migliaia di civili sono stati imprigionati, torturati e infine brutalmente uccisi. Secondo alcune stime circa trentamila persone hanno perso la vita e sono state sommariamente sepolte in fosse comuni. Migliaia di famiglie sono state fatte a pezzi, per anni non hanno saputo nulla dei loro familiari scomparsi, per anni non hanno avuto una lapide su cui piangerli, per anni sono stati accusati di mentire e gli è stata negata anche la possibilità di ottenere un minimo di giustizia.

Esattamente come accadeva in Atti umani, in Non dico addio Han Kang mette al centro del racconto una tragedia sconosciuta ai più. Ma, mentre in Atti umani il racconto era corale, qui a narrare troviamo solo Gyeong-ha aiutata dalla voce fuori campo di Inseon. Rispetto ai suoi precedenti romanzi, in questo libro prevale la dimensione onirica del racconto. Durante la lettura il confine tra sogno e realtà resta sempre estremamente labile, sottilissimo, a volte realtà e sogno sconfinano l’uno nell’altro fino a che non si riesce più a distinguerli.

Questa atmosfera onirica è particolarmente enfatizzata dall’utilizzo di una serie di simboli, espedienti che servono a dare risalto al vero protagonista del racconto. Così il pappagallino, la tempesta di neve, il cimitero di alberi neri, le lapidi e il mare che minaccia di distruggerle, fanno tutti parte di una simbologia che rappresenta la realtà, la tragedia di Jeju. Gyeong-ha e Inseon sono legate a doppio filo l’una all’altra e a quella tragedia. La madre di Inseon ne è stata una vittima diretta, ed è la sua memoria, il suo rifiuto a dimenticare, a lasciare andare il passato, che permette al racconto, alla tragedia, alle tante morti, di non essere dimenticato.

Tutti i temi cari ad Han Kang sono presenti in questo romanzo; la memoria, il ricordo, la vita e la morte che si alternano tra le righe, il passato e il presente che si confondono macchiando il futuro, il dolore per quello che non si può cancellare, l’amore in tutte le sue forme che resta l’unico baluardo di speranza, l’unica luce in un mondo avvolto da una tempesta di neve perenne.

In questo romanzo, che forse rispetto ad altri ha una forza politica e morale molto più presente, quello che colpisce è il modo in cui diversi generi letterari si fondono fino a trovare un equilibrio unico nel suo genere. Non dico addio è un romanzo, ma non è solo questo; è saggio e testimonianza storica, è anche poesia. É un racconto sia corale che personale, che riesce a fondere la storia di un popolo intero a quella della protagonista.

Struggente, atroce quando si sofferma sul ricordo del massacro, ma allo stesso tempo estremamente delicato. Non dico addio ha le sembianze di un lungo sogno, o forse di un incubo, in cui la dimensione onirica prende il sopravvento per parlare di qualcosa di estremamente reale e tangibile. Leggendo non riusciamo a capire quale sia la realtà e quale il sogno, non sappiamo quale dei personaggi che animano il racconto sia vivo e quale no, non riusciamo più a distinguere in quale tempo ci troviamo, in quale luogo siamo, alla fine ci troviamo con Gyeong-ha nella tempesta di neve, tra le lapidi che vengono sommerse, tra gli alberi che tentano di catturarci, in un hanok solitario nella foresta, divisi tra mille e più vite, le vite distrutte delle vittime e quelle spezzate di chi è rimasto intrappolato a un bivio, non riuscendo ad andare più né avanti né indietro.

Riuscire a mettere nero su bianco le sensazioni provate durante la lettura di questo romanzo è pressoché impossibile. É un’esperienza totalizzante, sconvolgente come solo la scrittura di Han Kang riesce a essere. E alla fine, girata l’ultima pagina, letta l’ultima riga, che cosa resta? Alcuni direbbero l’orrore, il dolore, altri forse il ricordo, ma io credo di aver capito perché quando le è stato chiesto di cosa parlasse questo romanzo Han Kang ha parlato di amore estremo. É proprio quell’amore capace di superare il tempo, lo spazio, le ferite più profonde e anche la morte. In un romanzo che parla di un massacro riuscire a trasmettere al lettore un sentimento del genere e a farlo prevalere sull’orrore, è un dono di pochi. Buona lettura.

“La fiamma si è levata. Come un cuore. Come un bocciolo che palpita. Come il battito d'ali dell'uccellino più minuscolo del mondo.”