[I° Tappa BlogTour] Storie di matti di Arianna Porcelli Safonov


Buongiorno #FeniLettori! Oggi parliamo di un libro che uscirà a breve "Storie di Matti" di Arianna Porcelli Safonov.
Che ci capiti o no di volerli vedere, i matti sono tra noi. Per strada, alle Poste, ai matrimoni: hanno solo cambiato i connotati. Sono moltissimi e forse più pericolosi di quelli di una volta rinchiusi in manicomio. I matti della porta accanto sono un movimento sempre più evidente e distruttivo. Quelli malati di socialità sono a briglia sciolta all'apericena o in fila dal nutrizionista. La loro versione 2.0 è composta per la maggior parte da persone dichiarate normali, pregevoli, da conoscere, imitare o invitare alle feste. Ma la cosa che più ghiaccia il sangue è la loro evoluzione. I matti odierni non solo si sono inseriti nel tessuto sociale come se niente fosse, ma sono riusciti a piazzarsi ai piani alti dei grattacieli o dei governi. Oppure sono in vestaglia ad annaffiare i cespugli di bosso nel nostro pianerottolo, ogni mattina alla stessa ora, sono in fila con noi al supermercato, pronti a linciarci se chiediamo di passare avanti perché abbiamo solo il detersivo da pagare. O, ancora, sono nel nostro letto da vent'anni. I nuovi pazzi sono i nostri sindaci, i nostri tabaccai, nostra moglie, nostro marito, il nostro amministratore delegato, l'amica di nostra figlia o semplicemente il tipo che ci siede accanto in treno. Ci attirano nella loro inquietante rete appiccicosa facendoci accettare tutto il marcio e malato come vero, assodato, chic o quantomeno normale.
Arianna Porcelli Safonov nata a Roma e laureata in Storia del costume, ha lavorato nell’organizzazione di eventi, mestiere per il quale ha viaggiato in tutto il mondo. Nel 2008 ha iniziato a studiare teatro comico, ha aperto il blog di racconti umoristici Madame Pipì e dal 2010 ha abbandonato il tragico mondo degli eventi per dedicarsi completamente all'intrattenimento. Oggi è un’apprezzata attrice comica, conduttrice di format tv e live e autrice di monologhi di stand-up comedy e cabaret, tra l’Italia e la Spagna. Nel 2016 ha esordito per Fazi Editore con Fottuta campagna, fortunato libro che è tuttora in tour.
Mi chiedo come mai di punto in bianco io abbia sentito la necessità di scrivere di pazzi senza aver mai subito particolari traumi infantili, a parte la nascita in una famiglia. 
Ma soprattutto mi chiedo come io abbia potuto scrivere di loro senza averne mai incontrato neanche uno per davvero, di pazzo clinicamente dichiarato, intendo. 
Mi domando da dove provenga la curiosità di creare delle storie col filo conduttore della follia come via d’uscita improvvisa e perché mi sia piaciuto, in questo libro, cucire questo filo indosso a soggetti apparentemente normali o dichiarati tali dalla società contemporanea. 
Se queste domande non bastassero, sarebbe interessante anche capire come mi sia venuto in mente di associare questi matti normali ad alcune città italiane da me ben visitate oppure viste appena di sfuggita, affidando tutto alla mia immaginazione, da sempre urgente e feroce come la curiosità, ma anche alle peculiarità di un posto che, a mio avviso, possono rendere schizofrenici i cittadini che lo abitano. 
Peculiarità non per forza di stampo negativo, perché anche l’eccessiva bellezza e felicità possono far impazzire. 
Senza quasi accorgermene, mi sono messa alla ricerca spontanea di testimonianze provenienti dagli istituti di sanità mentale abbandonati o in minor quantità riconvertiti e mi sono accorta di quanto, prima della legge Basaglia, le persone venissero internate anche per una semplice balbuzie o per risolvere in fretta faccende ereditarie.
Dunque, all’interno dell’odierna irragionevolezza: se molti furono rinchiusi nonostante la buona salute, oggi potrebbe essere che chi è giudicato in buona salute sia in realtà matto col botto?
Il rischio di un libro che racconta storie contemporanee è di essere pensato da certi lettori come una descrizione di fatti e personaggi realmente accaduti, perciò mi sbraccio subito a garantire che le persone che conoscerete leggendo in parte non esistono. 
Ciò che esiste davvero (e non è una buona notizia) è la matrice di queste storie: la follia di persone che rappresentano modelli comuni, perbene.
Una follia surreale, impercettibile o catartica, ma sempre riconducibile alla difficoltà di sostenere il peso di un mondo che chiede troppo alla persona rispettabile.
Ho scritto di matti della porta accanto perché ho sofferto analizzando questo movimento sociale sempre più evidente e distruttivo di inserire, all’interno del nostro tessuto borghese, soggetti resi pericolosi dal benessere. 
Che ci capiti o no di vederli, i matti sono davanti ai nostri occhi: per strada, alle poste, ai matrimoni o in altre circostanze quotidiane, persone nate sane impazziscono a causa di un’ordinarietà tanto competitiva. 
I matti sono tra noi, hanno solo cambiato connotati. 
Sono moltissimi e forse più pericolosi di quelli veri di una volta. 
Oggi quelle stanze fredde sono state dimenticate e quei matti lì sembra si siano estinti, nascosti come sono in un substrato di pensioni sanitarie che li contengono mentre i familiari cercano di vivere una vita rispettabile nonostante il parente bizzarro.
Eppure esiste un lato malinconico e delicato nelle storie dei matti veri, nonostante sia raro ormai incontrarli in contesti urbani. Essendo così, sono ben emarginati, inascoltati, derisi e lasciati a casa coi nonni, mentre quelli malati di socialità sono a briglia sciolta all’apericena o in fila dal nutrizionista. 
Quando ero piccola io c’era Remigio. 
Remigio era matto, non ti ci potevi avvicinare, dicevano. 
Mia madre mi prendeva la mano quando lo vedeva da lontano e sussurrava decisa: «Non dar retta, andiamo».
Remigio era un signore che le leggende volevano ricco e professionista stimato, ma poi gli era partita la ciabatta e aveva scelto come nuova sede lavorativa la fontana di piazza Barberini a Roma. 
Niente male come palcoscenico, una fontana che si trova nel preciso centro di un’importantissima piazza romana dove le auto sono costrette a fare il girotondo per andare in qualsiasi direzione, per risalire via Veneto o recarsi al Quirinale, ad esempio. 
Ogni mattina, esattamente come il direttore di banca che dicono sia stato, Remigio arrivava in piazza col suo outfit a metà tra un circense gitano e un turista giapponese di quelli pieni di gadget colorati per affrontare la città. 
Remigio aveva il gilet, mille cappellini coi fiori di stoffa cuciti sopra da qualche nonna che lo amava, i mocassini neri lucidi, gli occhiali senza lenti, il coraggio di un partigiano e il portamento di un ballerino di Djagilev. 
Entrava in scena ogni mattina alle 7,30 e si posizionava davanti alla balaustra della fontana con rispetto e concentrazione.
Quando i semafori chiamavano il verde dando via libera alla Minneapolis romana, anche lui, dopo un perfetto inchino, iniziava la sua danza. 
Ballava per gli automobilisti, per i turisti e per chi voleva fermarsi un attimo a guardarlo lasciandosi ipnotizzare. 
Seguiva il ritmo dei semafori, insultando i politici che passavano con le loro auto blu piene di scorta e poi restava fermo per minuti che sembravano ore, esibendosi in pose assurde da mimo bulgaro e guardando dentro agli abitacoli delle macchine ferme sulla striscia bianca dello stop.
Oppure si piazzava davanti ai motociclisti e iniziava con loro un lungo discorso silenzioso col suo sguardo di bambino vecchio e quando incrociava i miei, di occhi, quelli di una cinquenne che lo guardava in estasi dal finestrino dell’auto, non li mollava più; così restavamo immobili entrambi e io ero incapace di distogliere lo sguardo e far finta di niente, come ti dicono di fare coi matti.
Remigio se li prendeva, quei miei occhietti di bimbetta, e li portava per qualche secondo a danzare con la sua follia. 
Rimaneva congelato per connettersi al mio sguardo, a volte contorceva la bocca in qualche smorfia buffa per conquistarmi, altre volte si inerpicava sulla balaustra come un ragno, precorrendo i tempi della pole dance con un numero da ginnasta disarticolato e sbronzo, ma, in ogni caso, io bambina ero sua per qualche istante e partecipavo al famoso disordine che partorisce stelle di cui parla Nietzsche, solo che a propormelo non era un grande della storia o uno ritenuto un genio, né un artista famoso, ma Remigio: il matto di Roma.
I matti, non ci sarebbe bisogno di dirlo, sono anche disagio, silenzio, mancanza di autonomia nelle più piccole cose, disperazione dei familiari e di loro stessi.
Ma sono anche creatività furiosa, colori sgargianti come quelli che hanno solo certi quadri di Boccioni, libidine e vergogna senza guinzaglio, purezza e sfacciataggine, verità e coraggio, insomma, esattamente tutto ciò che servirebbe oggi alla nostra società, poveretta.
Fuori e in libertà, è alla categoria dei matti che dedico questo ciclo di racconti, quelli che, senza farsi accorgere da nessuno, si sono inseriti nel tessuto sociale come niente fosse, si sono piazzati ai piani alti dei grattacieli o dei governi aspettando che arrivi la notte per comprare ragazzi travestiti da bambine.
I matti che ho scoperto io sono in vestaglia ad annaffiare i cespugli di bosso nel pianerottolo del nostro condominio ogni mattina alla stessa ora, sono in fila con noi al supermercato, pronti a linciarci se chiediamo di passare avanti perché abbiamo solo il sale da pagare, oppure dormono nel nostro letto da vent’anni con un anello che abbiamo regalato loro quando non accorgerci era semplice. 
I nuovi pazzi potrebbero essere i nostri sindaci, il tabaccaio, nostra moglie, l’amministratore delegato della nostra azienda, l’amica di nostra figlia o il tipo che siede accanto a noi in treno e vuole parlare.
Se ci pensiamo un attimo, la faccenda dovrebbe farci rabbrividire. Ce li siamo messi in macchina, li abbiamo invitati a bere un caffè con noi, abbiamo chiesto loro amicizia sui social network oppure siamo andati alla loro conferenza stampa. 
Esistono storie disperate legate ai manicomi di tanti anni fa e di sicuro i pazzi di allora inorridirebbero sapendo che oggi la loro versione 2.0 è composta per la maggior parte da persone dichiarate normali, a piede libero, pregevoli, stimabili, da conoscere, imitare e invitare alle feste. 
I pazzi di oggi ci attirano nella loro inquietante rete appiccicosa che vuol farci accettare il marcio e malato come vero, assodato, chic, ma soprattutto normale, quando non esiste nessuna molecola più tossica di ciò che viene ritenuto dalla moltitudine “normale”.
Non mi piacciono questi matti contemporanei che arrivano all’aperitivo con la borsa firmata fingendosi amici di tutti. 
Non mi piacciono questi matti che fanno credere di essere composti e sobri a viversi la loro vita e quella dei loro figli almeno fino a quando non capita che si distraggono, lasciando intravedere un attimo della loro profonda e pericolosa disperazione senza sostegno. 
I miei sono matti ritratti nel preciso momento del loro tanto agognato attimo di perdita del senno represso: basta una parola detta storta o una giornata pesante dopo altre mille uguali e loro scoppiano, come vulcani coi tappi di magma sigillati da secoli nella loro camicia button-down o dentro alla loro utilitaria. 
Straripano come fango in piena, dopo aver subìto la vita come certi corsi d’acqua in città, stretti nei loro letti artificiali.
Traboccano di rancore, mortificazione e senso d’inadeguatezza e allora sì che mettono paura. 
Esplodono proprio mentre sono accanto a te, che ti stai bevendo la tua birretta a fine giornata di lavoro, in qualche galleria d’arte o a quell’inaugurazione dove ti hanno portato e tu manco ci volevi andare. 
I pazzi di oggi sono pericolosi senza che tu te lo aspetti, pronti a sbranarti da un momento all’altro e diretti alla giugulare se stasera è quella che il loro inconscio ha decretato essere la sera sbagliata, a causa di faccende che non ti riguardano ma che sono appese ai loro personali traumi non risolti.
Pronti a tirarti contro il vaso Ming a casa di un banchiere tedesco se tu per errore hai ammesso che i mocassini che indossano non sono il tuo genere.
Pronti a sfigurarti con un coccio di bottiglia se quella sera la cocaina non è stata tagliata abbastanza bene da essere compatibile col loro dolore.
Ci sono quelli che fanno di tutto per avere una vita dignitosa, convivendo col loro male sopito e ti offrono la loro diapositiva del vero impegno, sincero e giornaliero, contro la tragedia di avere una psiche da gestire. 
Eppure, prima o poi la follia arriva come un vento di cospirazione che invita tutti a smettere di essere pettinati, ricoperti di beni di lusso, catalogabili, anestetizzati, senza sbavature. 
Le sbavature prima o poi risalgono in superficie anche se sei il figlio del costruttore, anche se hai il posto fisso e il marito ricco. 
Anche se sei uno coi contatti giusti. 
I matti sono tra noi e hanno un sacco di like.   
Il calendario con il riepilogo delle varie Tappe qui.
Leggere in silenzio, Devilishly Stylish, The Imbranation Girl, Il colore dei libri, Voglio essere sommersa dai libri

E con questo concludiamo, spero che la nostra tappa vi sia piaciuta, continuate a seguire le altre tappe! Alla prossima!

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