Tutto sembrava immobile e silenzioso, ma una strana sensazione le fece venire la pelle d’oca. Non riusciva a capire cosa potesse essere a suscitare in lei un terrore ancora più grande di quello che aveva provato sino ad allora. Non fu affatto sorpresa quando vide il cadavere del signor Miller, riverso dietro al bancone: si rese conto in quel momento che, sin da quando era entrata, non aveva nutrito alcuna speranza di trovarlo vivo. Si guardò attorno, alla ricerca della causa del suo malessere, ma non vide nulla.
Eppure era certa che qualcuno - qualcosa - la stesse osservando. Sentiva di nuovo le narici pungerle per quell’intenso odore di selvatico. Si chinò all’improvviso sul cadavere del proprietario e, vincendo il ribrezzo, frugò nelle sue tasche. Tirò fuori un mazzo di chiavi e, freneticamente, cercò quella dell’unico cassetto munito di serratura, oltre alla cassa. Lo aprì e ne trasse una doppietta, cui Miller aveva segato le canne per renderla più maneggevole. La impugnò, puntandola verso la penombra che si addensava dalla parte opposta del locale e si sentì subito un po’ meglio.
“Esci fuori!” urlò, senza sapere con esattezza a chi si stesse rivolgendo.
La sua voce echeggiò nell’ambiente vuoto e l’eco si spense in un silenzio irridente. Possibile che fosse davvero sola e che chiunque avesse trucidato il povero signor Miller fosse andato via? Abbassò il fucile, con l’intenzione di raggiungere il telefono, nella speranza che i suoi fili non fossero stati strappati. Ma all’improvviso qualcosa si avvicinò a gran velocità e balzò su di lei. Fino a che non si sentì gettare a terra dall’urto violento, rimase convinta che i suoi sensi le stessero giocando uno scherzo. Non vedeva nulla, soltanto una specie di increspatura nell’aria, come quella prodotta dal vento sulla superficie di uno stagno.
Cadde a terra e il fucile le sfuggì di mano. Si spinse lontano puntando i piedi sul cadavere del signor Miller e allungando la mano per raggiungere l’arma. Nel frattempo cercò di capire cosa l’avesse aggredita, ma continuava a non scorgere niente, se non una specie di zona opaca che le impediva di vedere con chiarezza la parete di fondo. Se non avesse saputo che era razionalmente impossibile, avrebbe giurato di avere a che fare con un essere trasparente.
Le sue dita toccarono il calcio di legno del fucile a canne mozze e Beryl si affrettò ad afferrarlo e a puntarlo davanti a sé. Non aveva il coraggio di alzarsi, per evitare di concedere al suo aggressore il tempo di saltarle nuovamente addosso. Quando l’opacità si mosse e le parve che si lanciasse contro di lei, tirò entrambi i grilletti. Il tuono dello sparo l’assordò e la scarica di pallettoni riempì l’aria. Ma molti di essi non giunsero fino al muro, dimostrando - se mai ce ne fosse stato bisogno - che c’era veramente qualcosa di fronte a lei, anche se non riusciva a distinguerla.
Si sentirono un urto e un grugnito, che le sembrò più di rabbia e sorpresa che di dolore. Beryl ne approfittò per alzarsi e per lanciarsi verso il cassetto, alla disperata ricerca della scatola che conteneva le cartucce. Teneva gli occhi fissi verso la parete dove aveva udito l’urto, nella speranza che non la tradissero e che le permettessero di continuare a individuare l’opacità, unico segno di presenza del suo avversario.
Udì un rumore alla sua destra: la porta a vetri del locale che andava in frantumi. Ma, nel tempo necessario a girare la testa, l’essere invisibile le piombò di nuovo addosso, gettandola a terra. Fino a che esso non fu su di lei, una piccola parte di Beryl - quella razionale, forse - si era rifiutata di credere che ci fosse davvero una creatura invisibile a minacciare la sua vita. Ma il peso che la teneva inchiodata a terra, gli artigli che le penetravano la pelle facendola sanguinare, le fauci che le alitavano addosso il fetido e rovente fiato ferino non potevano essere frutto della sua paura o della sua immaginazione.
Con il fucile scarico e le braccia bloccate a terra da quelle che dovevano essere le zampe della creatura, comprese che stava per fare la stessa - orribile - fine dei suoi familiari e vicini, sbranati e abbandonati in una pozza di sangue. Fece per chiudere gli occhi, rassegnata alla fine imminente, quando colse un movimento. Una figura si muoveva rapidamente verso di lei, brandendo una spada. In quel momento si ricordò del giovane misterioso e si domandò che relazione avesse con il suo aggressore invisibile.
Senza esitare neppure un attimo, questi le si fermò al fianco e menò un violento fendente, che passò a meno di un palmo dal suo volto. Beryl gridò terrorizzata, ma il colpo doveva essere giunto a bersaglio, perché sentì il corpo che la teneva inchiodata al pavimento vibrare e poi cadere di lato. Si liberò del suo peso e si alzò, tremante, osservando il giovane armato. Aveva gli occhi spalancati e fiammeggianti, ma non sembrava intenzionato a farle del male. Le tese una mano.
“Sei ferita” le disse, con lo sguardo puntato sulle sue braccia, dove erano affondati gli artigli.
“Solo qualche graffio”, mormorò lei. “La maggior parte del sangue che ho addosso non è mio, ma della signora Johnson”.
“Sei scappata via prima che potessi spiegarti” riprese il giovane, annuendo. “Non sono stato io a uccidere i tuoi genitori e tuo fratello. Nello stesso tempo, devo scusarmi: non ho capito in tempo le loro intenzioni. Pensavo che il loro bersaglio fossi solo tu e quando sono arrivato a casa tua era troppo tardi.”
“Loro?” balbettò Beryl. “Loro chi?”
“I demoni che sono stati inviati a ucciderti!”